Ci sono cadenze che ti rubano il ritmo, dall’idea di progresso all’infinito.
Ti chiedi quale sia l’origine per sapere, poi chi siamo e cosa cazzo ci facciamo qui, e raccontiamo il prossimo.
dalle finestre nei giorni di sole, come i panni all’umido asciugano all’aria di parole vuote come ritornelli sentiti.
Le domande non si sciolgono nella tua teoria, ma si vivono, si lavano, si colorano, assumono timbri e ritmi diversi al tempo che ne ascolta i battiti.
Il grido inizia con l’inizio della vita, dopo la parola a cui l’uomo si raccoglie per capire, per dire, per proporre il suo tema, la sua costanza, una trama da tessere per non incorrere al grido del lupo che viene, ti annusa, ti osserva e ti lancia un segnale, mentre tu, come sempre non cogli il senso.
Sei debole, ferma. Parassiti il tempo come pure il tuo dire senza l’ardire del dire che poi che forse, che mai troverai quel grido che ti porta all’inizio per ricominciare. Menzogna e ricerca di abituali dimore e battiti nuovi, forse quello del cuore lasciato alla polvere sopra un comodino. I gesti si susseguono e si annullano, come le parole, come il tempo che corre e inciampa, cade, si rialza,
si allenta, si cerca, si dice, si racconta e poi ancora.
Manca l’equilibrio.
